Bullismo in fasce. Telefono Azzurro: “Vittime sempre più piccole anche di 5 anni”
“Ultimamente sono in crescita le segnalazioni che vedono come vittime i più piccoli, bambini di 5-6 anni. Sono infatti il 22% del totale dei casi di bullismo e di cyberbullismo segnalati”. A lanciare l’allarme è Ernesto Caffo, Presidente SOS Onlus Telefono Azzurro, neuropsichiatra infantile e docente all’Università di Modena e Reggio Emilia. Il dato emerge dall’ultimo dossier di Telefono Azzurro, relativo all’anno scolastico 2015-2016. Anno nel quale l’associazione, da quasi 30 anni impegnata nella tutela di bambini e adolescenti, si è occupata di quasi un caso al giorno: 270 per la precisione per un totale di oltre 600 consulenze di psicologi, neuropsichiatri ed educatori.
Prof. Caffo come mai si è così abbassata l’età delle vittime?
“Si deve sicuramente al fatto che l’ingresso dei bambini nel mondo del web è molto precoce e non è governato da un supporto educativo adeguato da parte degli adulti, dei genitori. D’altra parte nei bambini l’attrazione per il palmare, lo smartphone, per il mondo del touch è grandissima. Quindi, mentre una volta i piccoli venivano lasciati molte ore davanti alla tv, che fungeva da babysitter, oggi ci sono gli Ipad e tutto ciò che è touch. I bimbi iniziano il loro sviluppo cognitivo attraverso il touch, un mondo che si apre a loro con colori, immagini e movimento che loro possono modificare. Anni fa era impensabile: oggi basta un dito per disegnare, costruire, interagire, ma questo fa sì che crescendo questi bambini si rendono conto che il gioco non è solo il tablet in sé ma la connessione con tante altre persone, che loro non conoscono ma che sono contatti reali. I bambini credono che questo mondo sia sicuro, sia “personale”, perché sono nella loro casa, sul loro tavolo e non si rendono conto dei rischi che ci possono essere. A volte, invece, il contatto con gli altri in rete può diventare “violento” in termini di parole, di messaggi.”
Stando al vostro rapporto il 56% dei casi si registra al Nord, come mai?
“Semplicemente perché al Nord c’è una sensibilità maggiore da parte di adulti ed educatori, c’è più consapevolezza dei rischi e maggiore riflessione su questi temi. Nel Centro Sud invece non c’è ancora altrettanta attenzione”.
Perché le conseguenze degli atti di cyberbullismo sono più pesanti rispetto agli atti di bullismo?
“Perché, nella dimensione cyber, i commenti e le immagini offensive restano, non possono essere cancellate, come promettono falsamente alcune App, o vengono cancellate solo apparentemente. Quindi immagini, foto e post offensivi possono riemergere e continuare a ferire. Eppoi il numero delle persone coinvolte è di gran lunga maggiore e coinvolge anche amici e parenti. Quando diciamo ai bambini che cancellare dalla Rete ciò che li offende non è possibile è uno shock per loro, un dramma: realizzano che quello che pensavano essere solo un gioco è diventato altro. Il problema è anche che i ragazzi fanno fatica a capire il senso della privacy, della protezione dei propri dati personali e della propria immagine. Pensano di parlare solo con un amico, di trattare in privato, e non pensano che ci possano essere interferenze da parte di altre persone”.
La legge in discussione in Parlamento è stata molto criticata dopo le modifiche. C’è chi parla di bavaglio alla rete, chi dice che non doveva essere estesa anche agli adulti…Lei che ne pensa?
“Conosco bene questa legge che abbiamo seguito, spesso a fatica, lungo tutto il percorso…La legge nasceva a protezione dell’infanzia, poi è stata estesa agli adulti. Da un lato penso che paradossalmente gli adulti, ancor più dei bambini, abbiano maggiori possibilità di essere oggetto di ricatto e di situazioni improprie perché usano questi strumenti in modo improprio. Gli adulti fanno errori più banali. Ma il modo in cui è stata modificata la legge non ha aiutato la chiarezza. Il Senato dovrà ridefinire meglio il testo e i tempi purtroppo si allungano. Credo anche però che il controllo della Rete sia un tema molto delicato, dove i singoli paesi e parlamenti possono fare ben poco perché la Rete non ha confini nazionali. Andrebbero piuttosto fatte delle mediazioni con le grandi aziende. Le leggi rischiano di essere solo dichiarazioni di principio ma di non essere poi efficaci nel quotidiano”.
E quindi non si può fare nulla?
“Beh noi ad esempio, assieme a molti altri soggetti internazionali, tra cui oltre 50 stati, abbiamo aderito a una rete che si chiama We protect, nata in Inghilterra, che cerca di trovare un equilibrio tra sviluppo delle tecnologie e tutela delle parti più deboli, come i bambini, i disabili e gli anziani, che non dimentichiamolo sono spesso oggetto di truffe. Le grandi aziende come Google, Facebook, Microsoft si rendono conto di dover investire a difesa di queste fasce e di dover mettere in campo delle best practices. L’importante quindi è lavorare sugli equilibri e sulla prevenzione, più che su interventi post, sulla repressione”.
Ma è comunque importante arrivare ad una legge?
“Questa legge è importante perché ha fatto discutere il Parlamento, in modo anche molto acceso e articolato, di un tema che prima veniva considerato banale, marginale. Quando il provvedimento è arrivato alla Camera finalmente ci si è resi conto che questo è un tema su cui riflettere ma la legge da sola, come dicevamo non risolve certo un problema come questo, che è pervasivo nella società”.
Nel vostro rapporto sottolineate che conseguenze psicologiche pesanti ci sono non solo per le vittime ma anche per chi assiste a episodi di cyberbullismo senza fare nulla o prendendo le parti del più forte?
“Questo è un tema di grande interesse e grandissima preoccupazione. Lei sa che in rete nascono continuamente gruppi, movimenti, che sostengono l’odio, la violenza, la discriminazione. La rete, con un finto anonimato, permette tutto ciò. Il cosiddetto “testimone”, si scatena perché si sente coperto, ad esempio, da un nickname, ma poi nascono i problemi, ancor più quando parliamo di ragazzi. E’ un tema che va affrontato a livello educativo, perché si tratta perlopiù di ragazzi che apparentemente sono i più tranquilli e che poi soffrono moltissimo quando succede qualcosa di drammatico: sensi di colpa per non essere intervenuti a fermare una forma di violenza che è subdola perché non viene subito percepita come è in realtà, ovvero molto dannosa”.
FONTE: La Repubblica