Libri – Lamento di Portnoy di Philip Roth, il romanzo dissacrante di un’epoca che cambiava

di Martina Salvatore

Philip Roth, uno tra i più grandi autori viventi, ci lascia a 85 anni per insufficienza cardiaca, senza aver vinto il premio Nobel per la letteratura dopo averci regalato tante opere che da adesso verranno apprezzate maggiormente con ogni probabilità.

Nella lista dei candidati da anni ma poco gradito ai giudici di Stoccolma: troppo pungente e dissacrante, troppo irriverente e libertario per essere premiato. (Francamente non crediamo che Roth abbia sofferto di questa mancata incoronazione nell’olimpo degli scrittori!)

Nel 2012 aveva annunciato che non avrebbe più scritto.

Philip Roth era stanco, credeva di non aver più nulla da raccontare. Durante la sua lunga carriera pubblica 30 romanzi, fotografando pregi e difetti dell’America, indagando in modo acuto e penetrante le inquietudini del nostro tempo; ha smascherato le nostre ipocrisie, strappando via la maschera del perbenismo dai volti della gente comune, portando nella dimensione dell’universale quelle particolari esperienze di vita da lui stesso vissute.

E’ vissuto, infatti, tra l’Upper West Side di New York e la campagna del Connecticut, di estrazione piccolo borghese e origini ebraiche sin da subito inizia, almeno idealmente, a raccogliere esperienze ed episodi che poi tradurrà nel grande ritratto dell’America che si può rintracciare nei suoi lavori.

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Vogliamo proporvi il Lamento di Portnoy pubblicato nel 1969, un periodo di profonde rivoluzioni culturali per l’America perbenista e puritana, è il suo quarto romanzo nel quale sono evidenti molte di quelle caratteristiche che diverranno peculiari per una della penne più graffianti dell’ultimo mezzo secolo.

Questa è la storia del paziente Alexander Portnoy, che in forma di un lunghissimo monologo (che diventa dialogo solo sul finire dell’opera) al suo psicoterapeuta. La narrazione si dipana su diversi piani temporali, quasi mai connessi coerentemente tra di loro. Portnoy, il protagonista-narratore, racconta le vicende della sua vita presentandosi come un uomo nevrotico, erotomane, morbosamente dipendente e visceralmente attaccato a sua madre (donna dispotica, castrante, violenta e iperprotettiva che rappresenta il polo virile del nucleo familiare della manichea famiglia Portnoy, della quale il padre è solo un fantasma succube della donna.

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L’uomo riesce soltanto a trasmettere al figlio i suoi desideri di rivalsa per la vita :”Là dove lui era stato prigioniero, io avrei volato: ecco il suo sogno.”, Alex Portnoy inoltre dalla madre prende una sorta di dipendenza religiosa e folkloristica della quale però vorrebbe liberarsi. Viveva infatti una sorta di dualismo tossico tra l’essere ebreo e voler essere un goym (non ebreo) e viceversa. Incapace di trovare una stabilità e disperatamente alla ricerca di una moglie, una famiglia si trascina un bagaglio fatto di manie, tic, idiosincrasie e morbosità sessuali. Il povero Portnoy non è altro che alla disperata ricerca di un po’ di banale normalità. Il romanzo, alla sua pubblicazione, suscitò non poche critiche e notevoli successi (solo alla prima pubblicazione incassò oltre un miliardo di dollari) intriso di turpiloquio e immagine al limite della decenza
sessuale, questo romanzo non è altro che un inno alla libertà di pensiero in un America che puniva le manifestazioni non violente.

Vi proponiamo qualche riga del compianto Roth e del suo dirompente e dissacrante Alex Portnoy: […]

“Mi era cosí profondamente radicata nella coscienza, che penso di aver creduto per tutto il primo anno scolastico che ognuna delle mie insegnanti fosse mia madre travestita. Come suonava la campanella dell’ultima ora, mi precipitavo fuori di corsa chiedendomi se ce l’avrei fatta ad arrivare a casa prima che riuscisse a trasformarsi di nuovo. Al mio arrivo lei era già regolarmente in cucina, intenta a prepararmi latte e biscotti. Invece di spingermi a lasciar perdere le mie fantasie, il fenomeno non faceva che aumentare il mio rispetto per i suoi poteri. Ed era sempre un sollievo non averla sorpresa nell’atto dell’incarnazione, anche se non smettevo mai di provarci; sapevo che mio padre e mia sorella ignoravano la vera natura di mia madre, e il peso del tradimento, che immaginavo avrei dovuto affrontare se l’avessi colta sul fatto, era piú di quanto intendessi sopportare all’età di cinque anni. Credo addirittura di aver temuto che, qualora l’avessi vista rientrare in volo da scuola attraverso la finestra della camera o materializzarsi nel grembiule, membro dopo membro, da uno stato d’invisibilità, avrei dovuto per questo morire.

Ovviamente, quando mi chiedeva di raccontarle tutta la mia giornata all’asilo, lo facevo scrupolosamente. Non pretendevo di capire tutte le implicazioni della sua ubiquità, ma era indubbio che ciò avesse a che fare con il desiderio di scoprire che genere di bambino fossi quando non la credevo presente. Una conseguenza di tale fantasia, sopravvissuta (in questa forma particolare) fino alla prima elementare, fu che non avendo altra scelta divenni onesto.
E mio padre come prendeva tutto ciò? Beveva; ovviamente non whiskey come un goy, ma olio minerale e magnesia; e masticava lassativi; e mangiava crusca mattina e sera; e cacciava giú frutta secca mista.

Soffriva – come ne soffriva! – di stitichezza. L’ubiquità di lei e la stitichezza di lui, mia madre che volava dentro dalla finestra della camera, mio padre che leggeva il giornale della sera con una supposta su per il culo… ecco, Dottore, le piú antiche immagini che ho dei miei genitori, dei loro attributi e segreti. Lui era solitoar bollire foglie secche di senna in un pentolino, e questo, insieme con la supposta che gli si squagliava invisibile nel retto, riassumeva la sua stregoneria: bollire le foglie verdi e venate, mescolare con un cucchiaio il liquido pestilenziale, poi filtrarlo accuratamente con un colino e versarlo nel corpo ingorgato attraverso quell’espressione affaticata e afflitta del viso. E poi, curvo in silenzio sul bicchiere vuoto, come in ascolto di un tuono lontano, attendere il miracolo. Da piccolo sedevo qualche volta in cucina ad aspettare con lui. Ma il miracolo non arrivava mai, almeno non come lo immaginavamo e invocavamo: assoluzione dalla condanna, completa liberazione dalla tortura. Ricordo che quando la radio annunciò l’esplosione della prima bomba atomica, lui sbottò: «Forse mi ci vorrebbe quella». Ma tutte le purghe erano inutili per lui: le sue kishkas erano strette nella morsa ferrea dell’oltraggio e della frustrazione. Tra le sue varie disgrazie, poi, io ero il preferito di sua moglie”.

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